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Opera di carta dei britannici Alan Moore, alla scrittura, e Dave Gibbons, al disegno, il graphic novel Watchmen, al momento della sortita, riscrive le regole dell'universo di appartenenza, quello dei supereroi. I giustizieri che vivono nell'epoca della terza candidatura di Nixon e della vittoria americana in Vietnam non hanno superpoteri - con l'eccezione dell'iperbolico Manhattan - sono sporchi di malefatte, zavorrati dalle nevrosi e corteggiati dal delirio, sia esso di onnipotenza o di indifferenza. Si muovono dentro colori acidi, pagine di letteratura, echi di Shelley, Dylan, Giobbe, Einstein e Jung. La trasposizione cinematografica di Zack Snyder, fedelissima là dove il concetto di tradimento non calcola l'omissione (necessaria), vibra di devota passione al modello, sboccia con dei titoli di testa che non possono non dirsi incantevoli e resta in fiore per una buona metà del tempo, senza mai veramente accasciarsi ma appassendo naturalmente verso l'epilogo, luogo della resa dei conti col fumetto. Snyder non è regista di sottigliezze e basso profilo e non indossa guanti bianchi. La sua mano è pesante, non conosce astrazione; smargiasso, fa un frullato di alcuni delle migliori canzoni di fine millennio e le usa a commento, letterale didascalia; ringiovanisce, abbellisce, insomma ridisegna, pur conservando le immagini più eloquenti e in buona parte il piacere del testo. L'universo simbolico e l'aspirazione alla rottura evaporano e quel che resta è una buona pellicola superomistica. Watchmen film è ciò che Snyder ha visto nelle tavole di Moore, la sua personale interpretazione delle macchie di Rorschach, giusta o ingiusta non è lecito dire; l'ultima parola, l'arma letale - avverte il film - è un telecomando. Certo il test è superato, il dogma dell'infattibilità smentito e gli "uomini straordinari" di leggendaria sfortuna cinematografica risarciti e sostituiti da una corte di ben più appassionati e appassionanti guardiani da guardare.